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STALIN ERA ANTISEMITA MA NON BISOGNA RACCONTARLO

05/07/2013

STALIN ERA ANTISEMITA MA NON BISOGNA RACCONTARLO

Il 13 gennaio 1953, sulla prima pagina della “Pravda” – il quotidiano più influente del regime comunista sovietico – appariva la notizia, sconvolgente, che nove medici della cerchia del Cremlino avevano tramato per motivi di potere, assassinando Zdanov e Šcerbakov, due illustri collaboratori di Stalin. “Arrestato un gruppo di medici sabotatori”, sentenziava il titolo a tutta pagina: dei nove “criminali”, sei erano ebrei, e proprio a questi veniva imputata la maggiore responsabilità di aver avvelenato i due alti funzionari. “Nemici del popolo”, come prevedeva la lugubre formula che faceva da anticamera al supplizio e alla fucilazione, ma soprattutto “animali antropoidi”, “cosmopoliti”, “sionisti, spie dell’America e di Israele”.

Il “complotto dei medici”, come venne definito sulla stampa e come passò alla storia, divenne il leit motiv insistente nell’intera Unione Sovietica, per sei settimane. Questo periodo,

La copertina di un libro
sui crimini di Stalin
relativamente breve, era in realtà la punta di un iceberg, il risultato di almeno cinque anni di “lavoro” dietro le quinte, ordito da Stalin stesso. Il dittatore georgiano intendeva sfruttare le morti di Zdanov e Šcerbakov, con ogni probabilità da lui ordinate, per scatenare una nuova ondata di terrore, analoga a quella voluta negli anni Trenta: la tecnica, in fondo, era la stessa dell’omicidio Kirov, vale a dire utilizzare la morte di un prestigioso membro d’apparato per scatenare un lavacro di sangue e una “pulizia” interna al Partito e al governo. Conseguentemente, Stalin avrebbe serrato le fila dei vertici, colpito alcuni gerarchi che lo avevano stancato (Beria su tutti, che avrebbe seguito all’inferno i suoi illustri predecessori Jagoda e Ezov), avrebbe compattato gli alti comandi dell’Esercito (che nel complotto figuravano come uno dei bersagli principali) e preparato un grandioso scenario per la Terza guerra mondiale. Da tempo, sin dal 1945 – come racconta in “Conversazioni con Stalin” uno dei fidi uomini dello iugoslavo Tito, Milovan Gilas – il dittatore sovietico parlava dell’inevitabilità di uno scontro con il blocco occidentale: non era ancora completamente terminata la mattanza del secondo conflitto mondiale, e il “Piccolo Padre” dell’Unione Sovietica pensava al redde rationem con le “potenze borghesi”.

A queste considerazioni si lasciava andare sempre più sovente nei banchetti ad alto tasso alcolico che teneva al Cremlino insieme alla sua cerchia, nel cuore della notte. L’Urss che si avvicinava allo scontro finale non poteva permettersi potenziali “traditori” interni, “quinte colonne” e “sovietici non puri”: gli ebrei erano tutto questo. Cosmopoliti, legati attraverso associazioni internazionali a parenti e amici ebrei di altre nazioni, tradizionalmente istruiti e appartenenti alla massima cerchia intellettuale del Paese, gli ebrei finivano per costituire una potenziale minaccia. Nella mente del vecchio Stalin, sempre più malato nel fisico e progressivamente vittima di ossessioni, la popolazione ebraica sovietica (mai amata, sempre disprezzata sin dagli anni della gioventù, nonché “generatrice” dell’eterno, odiato rivale Trotzky) si trasformava in un simbolo di tradimento.
Due milioni di ebrei sovietici si trovarono improvvisamente, in quel gennaio 1953, in grande pericolo: i mezzi di comunicazione cominciarono ad auspicare la caccia all’ebreo, sempre formalmente mascherata con la formula della mobilitazione antisionista: epurazioni e avvisaglie di pogrom (una macabra tradizione russa, sin dai tempi degli zar) cominciarono a svilupparsi per tutto il grande paese sovietico.

In Siberia, Kazakhstan e Birobidžan i campi di concentramento, allestiti negli anni precedenti con meticolosa e silenziosa programmazione, erano pronti ad

Un manifesto antiebraico diffuso
in Urss durante gli Anni Venti
ospitare gli ebrei. I maggiori intellettuali ebrei – come lo scrittore Il’ja Erenburg, il violinista David Ojstrach, lo scrittore Vasilij Grossman e tanti altri – furono sottoposti a pressioni per firmare un documento, la cosiddetta “Dichiarazione Ebraica”, che auspicasse, da parte degli stessi ebrei, una deportazione nei luoghi succitati, “a salvaguardia della sicurezza della popolazione ebraica dalla giusta collera dei Popoli”. Pochi ebbero il coraggio di non cedere a questo ignominioso compromesso per salvarsi la vita: Erenburg rifiutò la firma, Ojstrach e la maggioranza, invece, chinarono il capo. Tempo prima, alcuni influenti scrittori e artisti ebrei sovietici, come il fondatore del Teatro ebraico di Mosca Solomon Mikhoels, erano scomparsi, nell’assoluto silenzio generale, non tanto (ovvio) della comunità sovietica terrorizzata, quanto nella pavida e conformista oligarchia intellettuale internazionale: scrittori ebrei americani come Norman Mailer e Arthur Miller, anche quando incontrarono, negli Stati Uniti, rappresentanti della cultura sovietica come il compositore Dmitri Šostakovic, evitarono accuratamente di fare domande scomode; allo stesso tempo, il cantante americano di colore Paul Robeson, dopo un viaggio in Urss, tornava decantando le meraviglie del “paradiso” stalinista, controbattendo alle accuse di un supposto antisemitismo presente in Urss con quelle di un “genocidio” perpetrato ai danni della comunità nera americana da parte del governo di Washington.

Il “complotto dei medici” diventava così la versione rossa di ciò che i famigerati “Protocolli degli anziani di Sion” erano stati per la polizia segreta zarista: un’arma propagandistica per dimostrare l’esistenza di un piano ebraico nazionale e successivamente internazionale per la conquista del mondo, partendo da un tentativo di secessione della Crimea, opportunamente popolata a maggioranza ebraica.
Grande mente del complotto – impossibilitato a difendersi perché assassinato esattamente cinque anni prima, il 13 gennaio 1948 – era Solomon Mikhoels, direttore del Comitato ebraico antifascista, investito alla carica dallo stesso Stalin e dal capo della polizia segreta Lavrentij Beria. Suo complice, il vicedirettore, e celebre poeta yiddish, Icik Solomovic Feffer, il quale, in realtà e per ironia della sorte, era stato complice coatto dell’omicidio del grande collega e amico. La dittatura staliniana aveva infatti il perverso potere di distruggere qualsiasi forma di lealtà, costringendo gli amici contro gli amici, i padri contro i figli, i mariti contro le mogli, e viceversa. Altra mente diabolica del presunto complotto venne identificata nella figura dell’eminente medico Miron Vovsi, primo cugino di Mikhoels.
La persecuzione e l’assassinio degli intellettuali e medici ebrei riuscì quasi completamente, ma il secondo, grande Olocausto previsto da Stalin, fortunatamente non ebbe completa attuazione (“solo” 600.000 ebrei risultarono vittime della macchina repressiva stalinista) perché, come scrisse efficacemente Soljenitsin in “Arcipelago Gulag” “Dio gli disse [a Stalin, N.d.R.] di separarsi dalla sua gabbia toracica”.

Nei primi di marzo del 1953, Josif Stalin moriva: si scatenava un’isterica ancorché silenziosa lotta per la successione che avrebbe portato a una prima, breve nomina di Malenkov, al colpo di mano di Krusciov e all’arresto e all’uccisione di Beria (probabilmente per strangolamento); immediatamente il “complotto dei medici” (pare, per volere di Beria) venne smontato, la stampa sovietica comunicò la falsità e la vergogna della macchinazione, i prigionieri sopravvissuti vennero
liberati e, appena in tempo, il mostruoso ingranaggio della deportazione dell’intera popolazione ebraica venne inceppato. Gli sgherri della polizia segreta che, torturando medici e intellettuali ebrei alla Lubianka così come nel remoto inferno del Gulag, annunciavano beffardi che avrebbero “completato il lavoro di Hitler”, si trovarono con le mani legate. Semplicemente, ubbidirono agli ordini e smisero di fare ciò che stavano facendo: perfette macchine da morte, private della benché minima autonomia di pensiero. L’incubo vissuto dagli ebrei tra il 1948 e il 1953 è alla base della fuga in massa verso Israele, non appena l’Urss di Gorbaciov, nel 1989, ha aperto i confini.

Stalin, antisemita da sempre
Josif Stalin fu antisemita da sempre: la “malattia” lo contrasse sin dalla giovane età, in famiglia. Il padre – un ubriacone che aveva dilapidato in vodka tutti i suoi averi e che quindi alternava la propria esistenza tra taverne e banchi dei pegni, entrambi per lo più tenuti da ebrei – e la madre, devota cristiana ortodossa convinta del “deicidio” imputato ai giudei, non potevano che trasmettergli la convinzione che quello del Talmud e della Torah fosse un popolo di cui diffidare.

Il nome stesso di Stalin, Josif, veniva da San Giuseppe, a lungo pregato da mamma Ekaterina perché le desse, finalmente, un figlio sano. Nella scala etnica georgiana – Stalin era di Gori – gli ebrei occupavano l’ultimo gradino, dopo la moltitudine di minoranze, dagli osseti

Mosca: il palazzo della Lubianka,
sede dei servizi segreti sovietici
agli armeni, ai russi, quest’ultimi i più privilegiati. Eppure, gli ebrei erano da almeno 2500 anni una presenza consolidata nella terra di Georgia, una terra che aveva visto passare i domini greci e romani, mongoli e turchi, persiani e russi.
Il mito di Stalin, sin da giovane, fu quello della Grande Russia: ancor prima di diventare il più potente uomo dell’impero sovietico, quando era solo un energico e intransigente attivista bolscevico, il futuro dittatore evitò accuratamente di parlare georgiano, usò sempre il russo e si considerò sempre un russo: da questo punto di vista, gli ebrei, visti come un popolo legato da interessi transnazionali, apparivano a Stalin un’entità poco malleabile e ancor meno addomesticabile, dotata di una forte cultura propria, non necessariamente religiosa. A questo aspetto va aggiunta la posizione che Stalin assumerà all’interno del partito, quella di sostegno alla “rivoluzione in un solo paese”, contrapposta alla “rivoluzione permanente” auspicata dal rivale Trotzky. Questa rivalità poneva di fronte due papabili successori di Lenin, sia sul fronte dell’aspirazione e dell’ambizione personale, sia su quello della dottrina marxista. Trotzky e Stalin, però, si trovavano insieme nel considerare la “questione ebraica” un non-problema, o meglio un problema che l’avvento della società socialista avrebbe risolto naturalmente.

L’esaurimento delle classi e delle nazioni avrebbe provveduto a convincere gli ebrei dell’assurdità di un sentimento ebraico. Lo stesso Trotzky, ebreo, tendeva a considerare ininfluente questa sua caratteristica, e accennò al problema dell’antisemitismo solo quando notò che Stalin, più o meno velatamente, ricorreva a quest’arma. Un altro elemento importante poteva essere quello che vedeva la maggior parte degli ebrei militare nelle file dei menscevichi, la fazione socialista rivale dei bolscevichi (e quindi del bolscevico Stalin), preponderante in Georgia. Il “profeta” Marx, infine, benché ebreo, era stato chiaro sugli ebrei: “Il denaro – aveva scritto – è il Dio geloso d’Israele, accanto al quale non può esserci altro Dio”. Nonostante entrambi i genitori di Marx discendessero da schiatte di rabbini, il filosofo tedesco detestava gli ebrei e la loro religione, e non mancava di enunciarlo nei propri scritti. Si può dire che il messaggio antisemita, quindi, era fortemente radicato sin dal teorico fondatore del marxismo.
Ricercando altre motivazioni dell’antisemitismo di Stalin, si può andare indietro alla fine dell’Ottocento, quando a Gori vi erano due medici taumaturghi, di origine ebraica, uno dei quali curò malamente il giovane Josif Džugasvili da un attacco di vaiolo. Questa malattia lasciò a Stalin, per tutta la vita, il volto butterato, e gli rese parzialmente deforme il braccio sinistro.

La formazione all’interno del seminario di Tbilisi, dove Stalin entrò giovanissimo, ebbe un’ulteriore parte importante nella condivisione di sentimenti antisemiti: all’interno del seminario, studenti e anche professori erano violentemente antisemiti. L’insegnamento gesuitico era duro e il complottismo era argomento di continue discussioni. Non solo: uno dei professori del seminario, un certo Abasidze, fu tra i fondatori delle famigerate Centurie Nere, movimento antisemita russo, responsabile tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900 di massacri e pogrom antiebraici.
La politica zarista, infine, non era certo morbida verso gli ebrei: il tutore dello zar Nicola II, Konstantin Petrovic Pobedonosev, sosteneva apertamente che la questione ebraica in Russia si sarebbe risolta con l’eliminazione fisica di un terzo degli ebrei, la cristianizzazione di un altro terzo e l’espulsione dell’ultimo terzo. Alla corte dello zar, infine, la popolarità dei “Protocolli degli anziani di Sion” erano verbo abilmente propagandato in tutto il paese e – come ha sostenuto Aryeh Elian, ex diplomatico israeliano inviato a Mosca negli anni Cinquanta – “li avesse letti o no, Stalin vi credeva”.
Gli ebrei erano comunque ben organizzati in Russia, non solo attraverso il movimento sionista, ma anche tramite il Bund, o Lega generale dei lavoratori ebrei. Il Bund venne da subito visto come una lobby potente e pericolosa da Lenin, Trotzky e Stalin, quest’ultimo in posizione ancora subordinata.

Riferimenti al nemico ebraico emersero, velati, anche durante gli anni Venti, quando Stalin scalò il potere eliminando la cosiddetta “opposizione di sinistra” , composta effettivamente da membri ebrei del Partito, basti pensare a Zinovev e Kamenev.
Negli anni Trenta, durante il “Grande Terrore”, accanto all’ex capo della polizia

Torretta di sorveglianza
lungo il recinto di un gulag
segreta Jagoda finirono due medici, accusati di aver avvelenato quattro importanti personalità, tra cui anche lo scrittore Maksim Gor’kij: uno dei due era il dottor Lev Grigor’evic Levin, ebreo che aveva personalmente curato Lenin, Stalin e le loro famiglie. “Stalin – scrive Louis Rapoport in “La guerra di Stalin contro gli ebrei” – odiava i medici perché li vedeva come invasori del corpo e, come Hitler, disprezzava la scienza ebraica della psicoanalisi. Come ha osservato il biografo Robert C. Tucker, la mente ossessionata dai complotti di Stalin era un esempio da manuale dell’imposizione a un’intera società di un sistema maniacale paranoico: il paranoico mette insieme persone, organizzazioni, incontri reali e immaginari in una pseudocomunità malevola. […] Così, nella mente di Stalin, ebrei e medici erano associati, anche nel caso in cui i medici fossero russi e comunque non ebrei”.
Rapoport continua così: “Durante il Grande Terrore, gli agitatori di Stalin avevano fomentato il pregiudizio antisemita, portandolo al culmine. Paradossalmente, mentre l’attenzione mondiale era rivolta alle leggi antisemite e alle persecuzione degli ebrei nella Germania nazista degli anni precedenti alla guerra, Stalin, tra i dieci milioni di vittime delle purghe, stava sterminando 500.000 o 600.000 ebrei”.

La collaborazione tra i due dittatori, poi, fu assolutamente efficiente dopo la firma del Patto Ribbentropp-Molotov del 23 agosto 1939, l’alleanza che scatenò la Seconda guerra mondiale, e che vide polizia Gestapo nazista e colleghi della NKVD sovietica scambiarsi prigionieri polacchi ed ebrei, oltre a fraterne pacche sulle spalle, sul ponte di Brest-Litovsk. Anche quando la Germania ruppe il patto e invase l’Urss, la macchina propagandistica sovietica evitò accuratamente di far sapere alle proprie popolazioni quale fine facessero gli ebrei nelle mani dei nazisti. La parola d’ordine era esprimersi per nazionalità: ad essere uccisi dai nazisti erano quindi polacchi, ucraini, e così via.

Le prime persecuzioni nel dopoguerra
Nel 1943, Stalin ordinò la costituzione del Comitato antifascista ebraico: formalmente deputato a tutelare gli ebrei, l’organizzazione si rivelava invece utile per controllarli. Presidente del comitato venne nominato l’illustre attore e creatore del Teatro ebraico di Mosca Solomon Mikhoels, vera memoria vivente della cultura ebraica russa. Vice presidente venne nominato il più scaltro Icik Solomonovic Feffer. Nello stesso anno, Mikhoels e Feffer vennero spediti negli Stati Uniti per propagandare la cultura sovietica in Occidente. Ci volle ben poco perché i due divenissero icone della sinistra liberal americana, ancora piena di illusioni sull’Urss e su Stalin.

Mikhoels e Feffer ebbero scambi con il cantante Paul Robeson, artisti come Marc Chagall, lo scrittore Howard Fest e persino lo scienziato Albert Einstein. Questo viaggio si rivelerà importante perché Mikhoels e Feffer poterono tessere collegamenti ufficiali con l’American Jewish Joint Distribuition Commitee. Sarà questo rapporto a fungere da pretesto per incastrare Mikhoels in futuro. Intanto, con la fine della guerra, l’antisemitismo di Stalin si era fatto ancora più virulento: A Yalta, nel 1945, in un incontro con il presidente americano Roosevelt, il dittatore sovietico si era ad esempio fatto sfuggire, a proposito degli ebrei, la definizione di “profittatori e parassiti”.
“In molte menti, specie in quella di Stalin – scrive Rapoport – intellettuale ed ebreo erano sinonimi. Come negli anni trenta, anche nel dopoguerra tutta la struttura sociale, e non soltanto l’intellighenzia e gli ebrei, era stata epurata. Ma nella mente di Stalin gli ebrei erano un nemico di primaria importanza, perché guardavano all’Occidente, erano troppo aperti ad influenze straniere e poi erano fedeli a una divinità che non era lo stato comunista. […] La parola chiave della lotta scatenata nel dopoguerra contro gli ebrei intellettuali sovietici fu cosmopolitismo, un eufemismo che designava gli ebrei e i gentili infettati da idee ebraiche”.
Stalin amava controllare e istruire tutti gli intellettuali, secondo le sue direttive che erano poi quelle perfettamente comuniste: da tempo aveva notato che le arti e le scienze erano “in mano agli ebrei”, a registi come Eizenstein, attori come il già citato Mikhoels o

Pianta della dislocazione
dei gulag nel territorio sovietico
Daniel Segal. Per di più parenti e collaboratori (la figlia, il figlio, il braccio destro Molotov) sembravano provocatoriamente sposarsi ad ebrei. Il dittatore si sentiva accerchiato. Nominò quindi Andrej Zdanov a “zar della cultura sovietica”, controllore delle tematiche e dello sviluppo dell’arte in Urss (!): prese il via la cosiddetta Zdanovscina, il regno del terrore culturale contro l’intellighenzia. Per due anni, dal 1946 al 1948 (e cioè fino alla sua morte) Zdanov divenne l’occhio di Stalin su medicina, letteratura, filosofia, linguistica (della quale il dittatore era fanaticamente appassionato), economia. La campagna antisemita esordì subito, nel 1946: progressivamente, il Teatro ebraico di Mosca venne boicottato. Cuore della cultura moscovita, il Teatro ebraico venne mortificato e desertificato, fino all’estinzione. Nel pomeriggio del 12 gennaio 1948, Mikhoels ricevette una telefonata, nella quale veniva convocato ad una “riunione urgente”, forse con un capo di partito di nome Ponomarenko. Da quella riunione, l’attore non sarebbe più tornato: a causare la morte di Mikhoels, ufficialmente, un incidente automobilistico.

Nel pomeriggio del 13 gennaio, al teatro yiddish di Mosca arrivò una telefonata anonima: “Mikhoels è morto […] Adesso viene il turno di tutti gli ebrei”.
Nell’aprile del 1949, il Teatro ebraico di Mosca era praticamente morto, chiuso ufficialmente dalle autorità. Il nome di Mikhoels scomparve letteralmente dalle pagine dei giornali e dai discorsi pubblici fino al 1953, quando sarebbe servito per il “complotto dei medici”.
Fino al 1952, gli ebrei vennero estromessi ed eliminati dalle file del Partito e dai gangli vitali della società sovietica: nella nuova edizione della grande enciclopedia sovietica, pubblicata nel 1952, la voce “Ebrei” passò dalle 54 pagine dell’edizione precedente – suddivise per storia cultura e religione – a due misere pagine. In quella due pagine, la frase: “Gli ebrei non costituiscono una nazione”. I vertici dell’Esercito vennero ripuliti di 63 generali e 260 colonnelli ebrei, estromessi o eliminati tra il 1948 e il 1953.
Verso la fine di agosto del 1948, dopo l’improvvisa morte di Zdanov, una sconosciuta addetta al reparto radiologico dell’ospedale del Cremlino – Ljdija Timasuk – esaminò, chissà come e per conto suo, gli elettrocardiogrammi di Zdanov, e informò gli organi di sicurezza sulla possibilità che l’illustre membro d’apparato non fosse deceduto di morte naturale. La Timasuk era solo una paramedica, da sempre divorata dall’odio per la propria superiore (ebrea) direttrice del reparto elettrocardiografico, Sofija Karpaj (in odore di arresto, che puntualmente avvenne nell’estate del 1951).

Improvvisamente, la Timasuk si vide catapultata ai vertici della medicina sovietica, e insignita dell’Ordine di Lenin. A lei si doveva l’assist per il lancio del “complotto dei medici”, che sarebbe scoppiato solo nel 1953, dopo che Stalin aveva potuto studiare ogni passaggio di quella che si annunciava come una nuova, immane purga. Intanto, le mogli ebree dei collaboratori di Stalin – come la moglie di Molotov – finivano nel Gulag: al fido Poskrebysev, che implorava per la moglie perduta, il dittatore fece trovare a casa, nello stesso giorno del “divorzio coatto”, una nuova moglie (!), questa volta russa.
Un altro passo verso il secondo Olocausto scatenato dal “complotto dei medici” fu il “processo Slansky”: un modello pilota della purga che Stalin stava preparando a Mosca. Tutto si svolgeva in Cecoslovacchia: l’ebreo comunista Slansky veniva accusato di tentato omicidio “medico” ai danni del presidente ceco Klement Gottwald. Processato e torturato, Slansky si autoaccusò di complicità con Israele, di sionismo, di intesa con i Rothschild e con Ben Gurion, e di qualsiasi nefandezza i torturatori sovietici volessero. Il caso Slansky scatenò epurazioni antisemite in tutti i paesi satelliti di Mosca. A finire nelle maglie della repressione vi furono anche membri di apparato comunisti ebrei dei quali non si sarebbe sentita la mancanza: come la famigerata dirigente rumena Anna Pauker, definita nell’universo comunista “una iena senza cuore”. Il 4 dicembre 1952, Slansky e dieci altri condannati vennero impiccati.

Le ultime parole di Slansky furono, da comunista conscio di essere stato complice di una macchina dell’assurdo: “Raccolgo ciò che ho seminato”. I corpi di Slansky e dei suoi compagni furono cremati nel carcere di Ruzyn e le ceneri raccolte in un sacco di patate, per essere poi rovesciate su una strada ghiacciata.
Tutto era ormai pronto per la mattina del 13 gennaio 1953, quando la “Pravda” avrebbe annunciato il “complotto dei medici”. Nella mente di Stalin, il complotto sarebbe stato l’ultimo, spettacolare passo prima della colossale purga antisemita, della deportazione e della “soluzione” della “questione ebraica” in Unione Sovietica. L’Urss – rinvigorita dalla cancellazione della “quinta colonna cosmopolita” – avrebbe potuto marciare verso lo scontro finale: l’Occidente aveva le ore contate.
Si può credere in Dio, nel Destino o nel Caso, quel che è certo è che l’ictus che colpì Josif Stalin nei primi giorni di marzo del 1953, di fronte ai suoi più “fidi” collaboratori, da Beria a Krusciov a Malenkov, avvenne al momento giusto.

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One Comment
  1. Io dubito da molti anni che nella morte di Stalin ci sia lo zampino di medici ebrei. Meritorio, ovviamente.

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